
I precedenti storici, i legami culturali ed affettivi, le responsabilità dell'Occidente nello sviluppo della storia Africana ed in particolare dell'Africa orientale, imposero all'Italia un intervento senza precedenti.
E' l'11 dicembre del 1992, dall'aeroporto di Pisa parte un C-130 con a bordo il primo nucleo avanzato di collegamento (NAC) composto una ventina di incursori paracadutisti del Col Moschin guidati dal Tenente Colonnello Incursore Marco Bertolini.
L'avventura Italiana in Somalia è cominciata.
Lo stesso giorno salpavano dal porto di Livorno l'incrociatore portaelicotteri Vittorio Veneto, la fregata Grecale, il rifornitore di squadra Vesuvio e le LPD San Giorgio e San Marco, con a bordo un reparto di fucilieri di marina del Battaglione "San Marco", la nave traghetto "Sardinia Viva" e noleggiata per l'occasione dal Governo Italiano per trasportare gran parte del personale del Battaglione logistico della Brigata paracadutisti "Folgore".
Tale gruppo tattico servirà come testa di ponte permettendo il successivo dispiegamento degli altri reparti della Brigata (183°, 185° e 186° e 187° Reggimento) e non solo. Sono previsti infatti pedine bindate come il 132º Reggimento carri con una unità a livello di compagnia a turni trimestrali, equipaggiata con carri M60 e reparti dei Lancieri di Montebello con autoblindo FIAT 6614 e blindo pesanti Centauro.

Il gruppo navale (24°), guidato dal Capitano di Vascello Sirio Pianigiani giunge in Somalia, al porto di Mogadiscio, il 22 dicembre sbarcando 23 mezzi anfibi e 16 mezzi cingolati del battaglione San Marco.
Il 5 gennaio 1993, arriva a Mogadiscio la nave "Alcadia Falcon" con l'ultimo carico di dotazioni del contingente.
In 25 giorni erano stati trasferiti, a 6000 km dall'Italia, 2600 militari completamente equipaggiati ed armati, 4200 tonnellate di viveri, carburante e munizionamento stivati in 210 containers, 800 veicoli e 15 elicotteri.
Per l'Italila è il più grande dispiegamento di forze militari dalla seconda guerra mondiale. Il contingente italiano è il più numeroso dopo quello americano.
La presa dell'Ambasciata
"Restore hope", ridare speranza, così era stata ottimisticamente chiamata la missione che vedeva la partecipazione di 23000 marines americani, 1063 soldati e legionari francesi, 900 paracadutisti canadesi, 1300 militari marocchini, ben 4500 fanti pachistani e 3200 soldati di altre 16 nazioni oltre a 2600 paracadutisti e soldati italiani.
Ridare speranza. Due parole che, nella loro semplicità, sintetizzavano un’impresa che si sarebbe ben presto rivelata ardua e pericolosa. Gli Italiani non si tirarono indietro e dimostrarono, fin dai primi momenti, efficienza e spirito di sacrificio.

Quando si trattò di stabilire il Quartier Generale delle operazioni non vi furono esitazioni. Il Comando della Brigata paracadutisti si sarebbe schierato presso l'ex Ambasciata di Mogadiscio, sede abbandonata e semidistrutta della rappresentanza diplomatica italiana, mentre il Comando dell'intero Contingente, per ragioni del funzionali, sarebbe rimasto nei pressi Comando multinazionale (UNITAF).
Ma c'era un problema: il vasto comprensorio che inglobava la cancelleria, la residenza dell'Ambasciatore e vari altri edifici era ancora occupato da una banda di miliziani armati. Fu avviato un negoziato per ottenere che gli "inquilini abusivi" se ne andassero pacificamente ma, allo stesso tempo, fu anche preparata un'azione militare che avrebbe consentito di far fronte a qualsiasi inconveniente. Sembrava che fosse stato raggiunto un accordo, ma chi poteva dire che sarebbe stato poi rispettato?
Nella tarda mattinata del 16 dicembre 1992, il Tricolore sventolava nuovamente sul tetto della cancelleria, non come simbolo di restaurato orgoglio nazionale, ma come sincera e fraterna promessa di aiuto.
Fortunatamente non era stato necessario ricorrere alle armi. Due ali di folla cenciosa ma festante, in attesa sulla strada di fronte alla sede diplomatica, avevano infatti scandito con grida e battimani tutte le fasi del " blitz " degli incursori che, partiti dalla sede provvisoria del Porto Nuovo, avevano rioccupato l'Ambasciata senza colpo ferire. Si cominciava bene.
In strada, si comincia!

L'invio di una colonna di aiuti umanitari nel cuore della Somalia, precisamente a Gialalassi, oltre 180 km dalla costa, rappresentò la prima importante operazione del Contingente italiano, ancora in fase di completamento. La cosiddetta Strada Imperiale, via principale tra il Sud e il Nord del Paese e diretta verso Gialalassi, era inutilizzata dai convogli umanitari da circa due anni a causa della presenza di banditi, aumentando le preoccupazioni del Comando Multinazionale.
L'operazione fu quindi preceduta da una ricognizione del 9° battaglione d'assalto 'Col Moschin' e Carabinieri paracadutisti per sgomberare la strada da eventuali ostacoli. La missione ebbe pieno successo, dimostrando l'efficienza e l'organizzazione dei soldati italiani.
Gialalassi fu la prima di molte tappe che permisero al Contingente italiano di controllare un'Area di Responsabilità vasta quasi quanto l'Italia settentrionale. Località come Balad, Giohar, Buloburti, Belet Uen divennero presto note a tutti i militari del contingente.
Il loro obiettivo immediato fu quello di soccorrere persone affamate e malate tramite i COU (Circuiti Operativi Umanitari), che avevano anche scopi militari. Era necessario pianificare raids per conoscere l'area e valutare i bisogni sanitari e alimentari, spesso su piste sabbiose e poco definite.
La sicurezza era un fattore cruciale, dato che era possibile alleviare le sofferenze delle popolazioni locali solo garantendo l'autoprotezione del personale. Banditi e miliziani rappresentavano una costante minaccia.
La partecipazione entusiastica dei Paracadutisti alle missioni in Somalia li vedeva affrontare sfide impegnative: viaggiare per giorni nella savana sotto il sole cocente, lottare contro insetti e parassiti, e confrontarsi con realtà difficili, molto diverse dalle tradizioni europee. Contemporaneamente, pattuglie militari cercavano armi, mentre medici e ufficiali logistici organizzavano interventi umanitari nei villaggi.
Il metodo "Angioni" anche in Somalia

Nella missione IBIS in Somalia del 1993, il contingente italiano adottò, fin da subito, l'efficace "metodo Angioni", precedentemente impiegato in Libano, tra il 1982 ed 1984, sotto la guida del Gen. Franco Angioni nell'operazione Italcon Libano 2. Questo approccio, incentrato sulla comprensione, l'aiuto ed il rispetto della cultura locale, dimostrò ancora una volta la sua validità come modello per operazioni internazionali di pace.
I COU per esempio furono una risposta umana, immediata ed efficace al soccorso umanitario in Somalia, estendendosi oltre i grandi centri sulla Via Imperiale. Dal 15 marzo 1993, dopo gli accordi di Addis Abeba, l'Italia promosse il dialogo tra le fazioni e la ricostruzione sociale del Paese. Tra le iniziative del Contingente italiano, spiccò la creazione di ambulatori accessibili alla popolazione, un modello seguito anche dagli altri contingenti.
I militari italiani, oltre ad eseguire gli ordini, si distinguevano anche per slancio e generosità, condividendo viveri e affetto, specialmente con i bambini. Distribuivano indumenti, medicinali e materiale scolastico, raccolti in Italia da famiglie di Ufficiali, Sottufficiali e Paracadutisti, con risultati notevoli, come l'invio di oltre 12 container pieni di materiale. Un segnale teso a dimostrare il forte coinvolgimento personale e umanitario verso il popolo somalo.
Il contingente italiano riaprì decine di orfanotrofi e istituti scolastici che erano stati abbandonati, oltre a ricostruire scuole coraniche distrutte durante la guerra civile. La Folgore pose particolare attenzione alla conservazione delle strutture essenziali per il funzionamento della società.

A causa del conflitto, numerosi bambini divennero orfani e l'educazione subì un arresto, enfatizzando la necessità dell'impegno del contingente nel rinnovare le fondamenta sociali e didattiche del paese.
Non ultimo fu il Corpo Veterinario dell'Esercito che svolse un duplice ruolo: il controllo degli alimenti di origine animale per il contingente e la popolazione locale, e un'intensa attività zooveterinaria negli allevamenti somali. Gli ufficiali veterinari realizzarono oltre 256.000 interventi, tra cui il trattamento di malattie parassitarie, infettive, protozoarie, patologie metaboliche, e interventi chirurgici. Questo impegno, contraddistinto da successi professionali e una positiva risposta del bestiame ai trattamenti, incrementò il rispetto e la simpatia della popolazione locale verso l'Esercito italiano, integrando i veterinari nel contesto somalo e contribuendo al miglioramento delle condizioni di vita.
Nell'ambito dell'assistenza ai somali, i militari italiani istituirono anche un servizio postale per riconnettere famiglie e comunità separate dalla guerra. Dal momento che molti somali si erano rifugiati in Italia, un ufficio postale a Mogadiscio inoltrava corrispondenza e messaggi audio, spesso in somalo con influenze italiane, a Livorno e da lì in varie regioni italiane. Inversamente, raccoglievano posta dai somali in Italia per spedirla a Mogadiscio. Questo servizio, dimostrando solidarietà, portò gioia e speranza a molti, riunendo famiglie divise dalla guerra.
Un'importante dimostrazione dell'impegno generoso del contingente fu l'organizzazione del rientro degli sfollati nei loro villaggi d'origine. L'iniziativa, mirata a decongestionare la capitale sovrappopolata e a rilanciare l'economia locale, rafforzò la fiducia tra italiani e somali.
Con queste azioni i Paracadutisti si guadagnarono il sostegno della popolazione locale ed evidenziarono l'importanza dell'impegno umanitario e sociale in contesti di crisi.
Ri(organizzare) Mogadiscio e dintorni

Oltre all'aspetto umanitario, i militari italiani si concentrarono su progetti pratici come la sistemazione dei mercati e la pulizia delle strade a Mogadiscio, una città ingombra di macerie ed ostacoli. Una microeconomia di mercati all'aperto, sorta lungo le principali vie cittadine e basata spesso sul baratto, prese il posto del commercio convenzionale, ma ostruiva il traffico e complicava le operazioni logistiche del contingente multinazionale.
La Folgore affidò a un proprio reggimento il compito di creare un piano regolatore per la loro area in Somalia, che includeva lo sgombero delle macerie e il riposizionamento dei mercati. Per realizzare il piano, il reggimento si consultò con i consigli dei quartieri, ascoltando le esigenze degli anziani, dei sacerdoti e delle figure chiave della comunità. Nel contesto della pulizia delle strade a Mogadiscio, c'era chi proponeva di appaltare il lavoro a imprese locali per generare impiego, ma la Brigata paracadutisti non disponeva di fondi per questo scopo.
Alcuni minacciarono resistenza armata contro lo spostamento dei mercati, temendo danni economici. Inoltre, persone coinvolte in traffici illegali si opposero al piano regolatore che avrebbe disturbato le loro attività illecite, evidenziando la complessità della situazione e le sfide nel ristabilire l'ordine.
Dopo complessi negoziati, si raggiunsero accordi per la pulizia delle macerie a Mogadiscio. Le operazioni furono svolte sia dalle macchine del reggimento sia dai lavoratori somali, pagati in natura (viveri e carburanti) secondo il principio di "food for work".

Le materie prime necessarie per queste attività furono fornite principalmente dal Comando multinazionale e da Agenzie non Governative sul territorio. Questa soluzione rappresentò un compromesso tra diverse esigenze e prospettive.
Le iniziative italiane in Somalia, quali la riattivazione dei pozzi e la pulizia dei canali di irrigazione, ebbero un impatto significativo. In paesi come la Somalia i pozzi sono vitali per la sopravvivenza quotidiana. Riattivare i pozzi ridusse la necessità per le comunità locali di viaggiare a lungo per l'acqua, pagare per l'accesso o muovere il bestiame. Queste azioni migliorarono significativamente la vita delle comunità in aree aride e difficili.
Nell'ambito della ripresa industriale in Somalia, la Brigata paracadutisti contribuì simbolicamente concentrando gli sforzi su una fabbrica di tessuti a Balad, la Somaltex, precedentemente chiusa per mancanza di risorse. Riaprendo parzialmente la fabbrica ed effettuando la prima commessa (mille paia di pantaloncini corti da ginnastica), i paracadutisti avviarono un ciclo economico basato sulla vendita di prodotti e sul reinvestimento dei guadagni per riattivare altri macchinari. Infatti la condizione fu di destinare il 50% dei proventi per agare i salri, il restante 50% per l'acquisto dei pezzi di ricambio necessari ad attivare altre macchine.
Questa iniziativa fu un grandisismo successo, riuscendo a creare occupazione e a stimolare anche la transizione di qualche miliziano a lavoratore...
Le operazioni militari, occhi aperti e dita sul grilletto

Nonostante l'eccellente lavoro umanitario, basta poco per tornare alla realtà della guerra.
Il paese pullula di miliziani armati e senza scrupoli, per cui le operazioni militari devono essere condotte, e lo saranno, con professionalità e determinazione, focalizzate sull'estendere il controllo sull'Area di Responsabilità e sul disarmo della popolazione.
Missioni di ricognizione chiamate "Odissee" precedettero i Circuiti Operativi Umanitari (COU) per identificare aree a rischio e valutare l'atteggiamento della popolazione. Il processo di disarmo incluse più di cento operazioni, come "Canguro", "Mangusta", "Hillaac" e "Tamburo", variando per dimensione delle forze, livello di responsabilità e rapidità di esecuzione.
Queste operazioni si rivelarono efficaci nella requisizione di armi e munizioni, contribuendo alla riduzione del banditismo e al miglioramento della sicurezza.
Cambio di rotta
Le operazioni di "peace building" discusse nel rapporto "Un'agenda per la pace" del Segretario Generale dell'ONU coinvolsero 33 Paesi. Durante il passaggio di comando da UNITAF a UNOSOM II, le operazioni militari e umanitarie nel settore italiano proseguirono intensamente. Con la transizione, aumentò il pattugliamento corazzato su richiesta di UNOSOM II, per fronteggiare potenziali azioni delle milizie. Siamo a maggio 1993, il mese trascorre velocissimo.
Questo periodo di cambio fu percepito come un momento critico e di attesa a Mogadiscio.
5 Giugno 1993
Il 5 giugno 1993 rappresenta l'inizio di un periodo tragico per UNOSOM: un'unità del Contingente Pakistano cade in un agguato e subisce gravi perdite. In questa critica situazione, l'intervento rapido delle forze italiane impedisce conseguenze peggiori, riuscendo a salvare 80 soldati pakistani e 10 marines, accerchiati e con scarse munizioni.
Gli scontri
Alle 10:40 del mattino, UNOSOM riferisce che vicino al chilometro quattro, un'area spesso teatro di scontri a fuoco, le truppe pakistane stanno affrontando azioni di disturbo da parte di miliziani armati, con sparatorie in corso ma senza una minaccia diretta al settore italiano. In risposta, il Generale Loi, per precauzione, pone in stato di allarme la compagnia di carri armati di stanza a Balad.
Subito dopo UNOSOM richiede ad ITALFOR due elicotteri armati per supportare le truppe pakistane a terra nella zona di via XXI ottobre. I combattimenti si stanno estendendo rapidamente, coinvolgendo anche le vicinanze di Radio Mogadiscio. Gli italiani stanno rafforzando velocemente e in modo significativo tutte le loro posizioni e i punti di controllo.
L'intervento italiano
Gli elicotteri italiani aprono immediatamente il fuoco contro cecchini somali che attaccano una pattuglia pakistana, aggravando la tensione della situazione. Verso le undici e mezza, le circostanze sembrano peggiorare ulteriormente. Contestualmente, la compagnia di carri armati, già precedentemente allertata, si muove verso la capitale e riceve l'ordine di posizionarsi alla periferia nord, in attesa di ulteriori istruzioni.

Nel mezzo del frastuono dei combattimenti e delle barricade erette dalle milizie nella zona nord-occidentale della città, si arriva alle 14:00. La situazione diventa insostenibile per i Caschi blu pakistani, e il Comando UNOSOM chiede al Generale Loi di far entrare i carri armati in città per alleviare la pressione su di loro.
Tuttavia, prima di procedere è essenziale prepararsi adeguatamente per assicurare il successo della missione ed evitare imboscate. La sorveglianza aerea e il collegamento per ricevere informazioni in tempo reale diventano cruciali, pertanto la presenza di elicotteri è necessaria. Si segnala inoltre l'afflusso di centinaia di guerriglieri nel settore pakistano, molti dei quali sono equipaggiati con armi controcarro.
Paracadutisti e carristi prendono posto a bordo delle autoblindo e dei carri armati, allineandosi davanti all'ex Ambasciata d'Italia. Il piano stabilisce di procedere verso la via Nazionale, dividendo il convoglio in due gruppi che avanzano da direzioni differenti, al fine di garantire supporto reciproco in caso di attacco. La destinazione finale è la fabbrica di sigarette sulla via XXI ottobre, dove sono assediati i soldati pakistani e statunitensi.
Sorvolando a bassa quota i quartieri semidistrutti di Mogadiscio, gli elicotteri mantengono la loro altitudine nonostante l'attesa di possibile fuoco nemico. Gli osservatori notano gruppi armati in procinto di attaccare la fabbrica sulla via XXI ottobre e segnalano numerosi cadaveri. I due gruppi di carri armati e blindati avanzano verso la via Nazionale, muovendosi attraverso una Mogadiscio tesa e minacciosa.

Durante il tragitto, si imbattono nei primi corpi martoriati dei soldati pakistani, e i paracadutisti si apprestano alla loro raccolta. La tensione è tangibile mentre il convoglio si avvicina alla fabbrica di sigarette a nord, con ogni soldato in allerta per un eventuale scontro, anche se per ora impera un silenzio spezzato solo dal rombo dei motori dei carri armati.
Finalmente, il convoglio raggiunge la via XXI ottobre. Dall'alto, gli osservatori sugli elicotteri riferiscono che la folla, che poco prima stava per lanciarsi nell'assalto finale alla fabbrica, ora si ritira spaventata nelle strette strade del quartiere, lasciando i guerriglieri disorientati. È il momento di sfruttare l'effetto sorpresa, ma avvicinandosi agli assediati, questi ultimi sparano verso i propri soccorritori. La situazione ha dell'ironico, se non fosse che i colpi sono reali: è la tensione nervosa che sfoga, impedendo di pensare chiaramente.
In meno di trenta minuti, i soldati pakistani e americani sono in sicurezza sui veicoli da combattimento cingolati (VCC). Si imbarcano sui mezzi in modo ordinato e silenzioso, visibilmente scossi. Nel frattempo, gli elicotteri volano minacciosi sopra alcuni edifici da cui cecchini tentano di prendere di mira le truppe, ma si ritrovano a vedere quasi negli occhi i mitraglieri. Decidono di desistere.
Sono le 17:10 quando inizia il ritiro. I cingoli dei veicoli schiacciano le residue, timide barricade mentre il convoglio si allontana frastornante verso Ovest, segnando la fine di una fragile pace primaverile.
Se ne accorgeranno presto anche gli Italiani.